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Storia/Storia di Avenza
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GIUSEPPE MAZZINI INCONTRA I CARBONARI DI L'AVENZA E FONDA LA "GIOVINE ITALIA" Verso la fine del 1830 accadde a L'Avenza un evento straordinario. Dopo le impiccagioni del '22 l'organizzazione Carbonara era diventata segretissima, tant'è che i seguaci del tirannico Duca nulla poterono contro i nostri. Fu così che attraverso le informazioni della Carboneria gli associati di l'Avenza ricevettero un giovane avvocato genovese. Aveva 25 anni e si chiamava Giuseppe Mazzini. Egli comprese subito che le informazioni avute erano esatte circa l'efficienza e la serietà della locale Carboneria ed espose subito agli attenti patrioti apuani il suo piano di trasformazione della Carboneria nella associazione la "Giovine Italia" che doveva preparare l'insurrezione generale contro i tiranni per raggiungere l'unità d'Italia. Ottenne un immediato entusiastico assenso ed allora espose i dettagli del suo meticoloso piano associativo. "La Giovine Italia è repubblicana perché tutti gli uomini della nazione sono chiamati per la legge di Dio ad essere liberi, uguali e fratelli. Perché repubblicane sono le nostre grandi memorie da Roma alle repubbliche marinare. La Giovine Italia è unitaria perché il federalismo la condannerebbe all'impotenza e la porrebbe sotto l'influenza straniera e riprodurrebbe situazioni medioevali tra i diversi stati federali. La Giovine Italia è basata sulla educazione del popolo rispettoso di Dio consapevole che organizzerà una guerra per bande appena scoppiata l'insurrezione. I colori della Giovine Italia saranno il bianco, il rosso e il verde, la bandiera della Nazione del popolo italiano, dal Varo al Quarnaro, dall'Alpe alla Sicilia. "Ed ora giuriamo nel nome di Dio e dell'Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide." "Per i doveri che legano alla terra ove Dio m'ha posto... per l'amore innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli... per l'odio, innato in ogni uomo al male, all'ingiustizia, all'usurpazione, all'arbitrio... per il rossore che io sento in faccia ai cittadini dell'altre nazioni, del non avere nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria....per la memoria dell'antica potenza.... per le lacrime delle madri italiane ... per i figli morti sul palco , nelle prigioni, in esilio .... "Io....convinto che dove Dio ha voluto fosse nazione il popolo e depositario delle forze necessarie a crearla.... dò il mio nome alla Giovine Italia e giuro di consacrarmi tutto e per sempre all'Italia, nazione una indipendente, libera e repubblicana, di uniformarmi alle istruzioni dei fratelli e di conservarne, anche a prezzo della vita, i segreti."Ora e sempre! Così giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abominio degli uomini e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in parte il mio giuramento."I carbonari di L'Avenza che già si erano bene organizzati, dopo l'affiliazione nella Giovine Italia, infiammati ancor più da Giuseppe Mazzini divennero in gran segreto un piccolo esercito pronto all'azione al momento decisivo che si avvertiva prossimo. Mazzini fu entusiasta di loro e negli anni soleva ricordarli a mo' di esempio. Dopo l'incontro di L'Avenza Mazzini dovette riparare dapprima a Marsiglia, poi in Svizzera ed infine a Londra.Benché in esilio e con gli scarsi mezzi di comunicazione di allora era il 1831 - giorno dopo giorno, ora dopo ora dedicò tutta la sua vita ad incitare tutti gli italiani all'unità della Nazione. Il suo grande merito fu quello di aver presentato all'Europa e al mondo il problema Italia che fino a quel momento era considerata terra di conquista, terra dei morti. Frattanto era salito al trono dello Stato Sardo Carlo Alberto e Mazzini gli indirizzò dall'esilio un messaggio incitandolo a lottare per l'unità d'Italia. Non ebbe risposta ed allora - era il 1832 - diffuse la Giovine Italia, l'associazione che infiammò tutta la gioventù patriottica d'Italia con quei principi che già due anni prima avevano esposto ai carbonari di L'Avenza. Trascorsero gli anni '30 con le notizie delle rivolte francesi, ora contro i Borboni ora contro gli Orléans, mentre l'opinione pubblica era sbalordita dalle conquiste della scienza e della tecnologia. Il motore a vapore aprì insperati orizzonti al progresso. Tuttavia al progresso tecnico non corrispondeva un progresso politico perché perdurava un assetto retrivo e reazionario mentre i popoli chiedevano le costituzioni democratiche. Mazzini fu condannato a morte in contumacia nel '34 dal governo piemontese, ma questo verdetto non preoccupò più di tanto i patrioti. avenzini che seguitarono a sperare nel monarca sabaudo. Anche gli anni '40 si susseguirono in una continua agitazione nella speranza dell'unità d'Italia, ma nel '44 i borbonici fucilarono presso Cosenza i due fratelli Bandiera con sei loro compagni della loro azzardata ed impreparata impresa insurrezionale. Il 23 gennaio del 1846 il tirannico Francesco IV morì e gli successe il figlio Francesco V, crudele quanto il padre. Ma i tempi erano maturi. Si avvicinava il 1848! Tratto da L'AVENZA di Aldo Cecchini
Venerdì 03 Giugno 2011 | 3516 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Cultura/Dialetto
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IL COMMIATO L'Alpe di Mommio un pallido velame d'ulivi effonde al cielo di giacinto, come un colle dell'isola di Same o di Zacinto. Il Monte Magno di più cupo argento fascia la sua piramide; il Matanna è porpora e viola come il lento fior della canna. O canneti lungh'essi i fiumicelli di Camaiore, appreso ho il vostro carme. Vedess'io rosseggiare gli albatrelli sul Monte Darme! Dal Capo Corvo ricco di viburni i pini vedess'io della Palmaria che col lutto dè marmi suoi notturni sta solitaria! Potess'io sostenerti nella mano, terra di Luni, come un vaso etrusco! In te amo il divin marmo apuano, l'umile rusco; amo la tua materia prometèa, la sabbia delle tue selve aromali, l'aquila dei tuoi picchi, la ninfea dè tuoi canali. Potesse l'arte mia, da Val di Serchio a Val di Magra e per le Pà nie al Vara e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio con l'alpe a gara! Troppo è grave al mio cor la dipartenza. Come dal corpo, l'anima si esilia dal marmo che biancheggia tra l'Avenza e la Versilia. Tempo è di morte. In qualche acqua torpente or perisce la dolce carne erbale. Strider non s'ode falce ma si sente odor letale. DÃruta la Cerà giola rosseggia, là dove Serravezza è cò due fiumi, quasi che fero sangue in ogni scheggia grondi e s'aggrumi. Sta nella cruda nudità rupestre il Gà bberi irto qual ferrato casco. Ecco, e su i carri per le vie maestre passa il falasco. Metuto fu dalla più grande falce nella palude all'ombra del Quiesa, ove raggiato di vermène il salce par chioma accesa tra cannelle di stridulo oro secco, tra pigro sparto di pallor bronzino. Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il becco tuffa il piombino. Deh foss'io sopra un burchio per la cuora navigando, e di tifa e di sparganio carico ei fosse, e fossèvi alla prora fitto un bucranio o un nibbio con aperte ali, e vi fosse odore di garofalo nel mucchio per qualche cunzia dalle barbe rosse onde il suo succhio sì caro all'arte dell'aromatario stillasse fra l'erbame, e resupino vi giacessi io mirando il solitario ciel iacintino; e scendessi così, tra l'acqua e il cielo con l'alzaia la Fossa Burlamacca albicando qual prato d'asfodèlo la morta lacca; e traesse il bardotto la sua fune senza canto per l'argine; ed io, corco sul mucchio, mi credessi andare immune di morte all'Orco! Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare; e di sogni obliosi in van mi pasco. Si i gravi carri lungo le vie chiare passa il falasco. Sono sì vasti i cumuli spioventi che il timone soperchiano dinnanzi e il giogo cèlano e le corna e i lenti corpi dei manzi, onde sembran di lungi per sé mossi e tra la polve aspetto hanno di strani animali dai gran lanosi dossi, dai ventri immani. In fila vanno verso Pietrasanta, strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso. L'un carrettiere vócia e l'altro canta a passo a passo. E tutta la Versilia, ecco, s'indora d'una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella, ahimè, come in quest'ora ultima, o Pania! O Tirreno, Mare Infero, s'accende sul tuo specchio l'insonne occhio del Faro; ti veglia e guarda con le sue tremende navi d'acciaro la Città Forte dietro il Caprione sacro agli Itali come ai Greci il Sunio; t'è scheggia della spada d'Orione il novilunio; come sia fatta l'ombra, alla tua pace verseranno lor lacrime le Atlà ntidi, ti condurrà l'ignavo Artofilace l'Orse erimà ntidi; s'udrà pè curvi lidi il tuo respiro solo nell'ombra senza mutamento; solo rispecchierai l'immenso giro del firmamento. O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano con nel mio cuor la torbida mia cura! Splende la cima del mio cuore umano nell'ode pura. Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio, risali il Serchio, ascendi la collina ove l'ultimo figlio di Vergilio, prole divina, quei che intende i linguaggi degli alati, strida di falchi, pianti di colombe, ch'eguale offre il cor candido ai rinati fiori e alle tombe, quei che fiso guatare osò nel cèsio occhio e nel nero l'aquila di Pella e udì nova cantar sul vento etèsio Saffo la bella, il figlio di Vergilio ad un cipresso tacito siede, e non t'aspetta. Vola! Te non reca la femmina d'Eresso, ma va pur sola; ché ben t'accoglierà nella man larga ei che forse era intento al suono alterno dei licci o all'ape o all'alta ora di Barga o al verso eterno. Forse il libro del suo divin parente sarà con lui, sù suoi ginocchi (ei coglie ora il trifoglio aruspice virente di quattro foglie e ne fa segno del volume intonso, dove TÃtiro canta? o dove Enea pè meati del monte ode il responso della Cumea?). Forse la suora dalle chiome lisce, se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardi e chiuda nel forziere il lin che aulisce di spicanardi, sarà con lui, trista perché concilio vide folto di rondini su gronda. E tu gli parla: "Figlio di Vergilio, ecco la fronda. Ospite immacolato, a te mi manda il fratel tuo diletto che si parte. Pel tuo nobile capo una ghirlanda curvò con arte. E chi coronerà oggi l'aedo se non l'aedo re di solitudini? Il crasso Scita ed il fucato Medo la Gloria ha drudi; e, se barbarie genera nel vento nuovi mostri, non più contra l'orrore discende Febo Apollo arco-d'-argento castigatore. Ma tu custode sei delle più pure forme, Ospite. Col polso che non langue il prisco vige nelle tue figure gentile sangue. Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia, come l'ulivo placido produce agli uomini la sua bacca palladia ch'è cibo e luce. Per ciò dal fratel tuo questa fraterna ghirlanda ch'io ti reco messaggera prendi: non pesa: ell'è di fronda eterna ma sì leggera. Fatta è d'un ramo tenue che crebbe tra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor dè cuori selvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbe i suoi furori. L'artefice nel flettere lo stelo vedea sul Sagro le ferite antiche splendere e su l'Altissimo l'anelo peplo di Nike. Altro è il Monte invisibile ch'ei sale e che tu sali per l'opposta balza. Soli e discosti, entrambi una immortale ansia v'incalza. Or dove i cuori prodi hanno promesso di rincontrarsi un dì, se non in cima? Quel dì voi canterete un inno istesso di su la cima". Ode, così gli parla. Ed alla suora, che vedrai di dolcezza lacrimare, dà l'ultimo ch'io colsi in su l'aurora giglio del mare. (Data di composizione sconosciuta) di GABRIELE D'ANNUNZIO
Venerdì 03 Giugno 2011 | 6140 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Cultura/Dialetto
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Tanti ani fa, la zona ndustriale a n'esistev p'r gnent e 'ndov'mò a iè tut chi stabilimenti nozivi e pussolenti, a i er di paduli, mace e mazere che a la stata a d'er'n piene d' Lisci e d' zortede, drent ai fosòn a i er tante qualità d' pesci, i arnoc'li i cantav'n di e nota, i parev'n al s'rvizi d'la R.A.I. ma p'r lor a n'esistev ne 'l prim "l s'gònd canal, la musica ad'er senpr quela, ma a disturbarla i er'n i p'scatòri che con i lami e la nase i fev'n rassia, ma a i n'er mai tanti che a d'er come rincar un pel a un bò. Le ca, a s' contav'n con i diti, ad'er'n sparse una 'n qua e una 'n la, a d'er'n ca fate a la bòna. senza tante storie, bagn, sala e via d'scorend, p'rchè a ch'i tenpi li a ni er tut c'l'anbiziòn che a iè mò, la zenta che a i stev drent a d'er p'u che contenta. 'N t'una d" c'iè ca li, a i stev una famigia d' quatr p'rsone, Ba, Ma e dò figiòli, i vivev'n d' stenti p'rchè la terà al frutav pogh e quindi a i er pogh da ros'gar, d'nvern a d'ndev a lagh e d'stata a l' strinav nicò. 'L Ba il ciamav" n panzòn p'rchè i er smilz come una cana, però i er san come un bus'l, i avev un par d' bafi ch'i parev'n fati con la barbagia d'l granturch. Lui i viazav quasi senpr d' scalza e sot a i pè i avev la peda che an s'n' bucav nemen con la (riveda, i portav i calzòn tuti artopati, i er'n senpr queli che aia dat 'l govern 'n t'l tenp d'la guera d'l 15-18. La Ma a s' ciamav Culunbina. a d'er una dona tracognota e tonda come un rap, al portav senpr un fassolet ner 'n testa c'a si v'dev sol 'l mus e ch'i dò ucin sbatuti, a si l'zev drent quant al sufriv c'la pov'ra dona. ma a d'er tanta bòna che a n' s' lam'ntav mai p'r paura d' dar di d'spiazeri al marit e ai figiòli. I figiòli i avev'n dizot ani, i er'n z'medi, un i s' ciamav Pie e c'd'altr Batì, i avev'n una forza d'l diav'l, quand i er'n 'n t'l canp a vangar, i parev'n a scriv'r, i man'zav'n la vanga come una pena, ma quand i magnav'n. 'l tòf da la polenta i spariv 'n quatr e quatr'ot, però i n' z'rcav'n mai di licheti, i magnav'n quel ch'i trovav'n. i parev'n 'l reclam d'la saluta bianchi e rosi come fióri. Anch lor i portav'n i bafi come sopà . Una bela matina d' primavera, tuti e quatr i er'n 'n t'l canp a s'ciarar 'l granturch, 'l sol i fev luz'car le mare, 'l v'ntared i fev mòv'r le foie, i uz'din i s' dev'n adret un con d'altr come al fa i fanti a l'asilo, le borbatle tute colorate a d'svolassav'n avanti e ret e ogni tant a s' butavén 'nzim a le margheritine, ma 'l rumor d'un rop'lan i fé scunbus'lar tut c'd'armonia d' pace. Pie i s' fiso a mirar c'l mostr ch'i volav bas 'nfina a strussar le zime di piòpi, Sopà chi er una golpa vecia, i 'nmazinò sub't i p'ns'eri d'l figiòl, i z'rcò d' distrarl, ma ormai 'l z'rved d' Pie i ser fat l'idea d' piantar baraca e buratin e 'ndar 'n zerca d' far una vita p'u bela. 'Nfati, dop a qualchi mesi i partì volontari 'n t'l'aviazion con la speranza d' far f'rtuna e poter dar un aiut a i so veci che i n'an mai gudut gnent 'n vita sòa; Ma quand a s' diz 'l diav'l i vò metri 'l zanpin, a n'n'va una d' drita. Dop a una quind'zina d' di, mentr che panzòn i er a taiar 'l fen p'r le vache, i s' s'ntì ciamar da la mogia, i alzò i oci p'r r'spònd'ri, ma 'l fiat i si mosso 'n gola v'dend che 'nsema a la mògia a i er un soldat, 'n dò s'gòndi i arivò a ca, cunvint ch'i fus 'l so figiòl, ma purtrop al fu p'r lu una delusiòn v'dend che a s' tratav d'un carabigner. CI pov'r om i 'ncuminzò a tr'mar, i z'rcò d' dir quarcò al carabigner ma a ni vens fora nemen una parola. Anch c'l pov'r om 'n divisa i n' sapev p'u còs i dovev far, ma po' i dovè dari la bruta nutizia, i tirò fora una let'ra 'ndòv al dizev che Pie i er mort p'r causa d'un'ncident a d'arop'lan che Lu i viazav 'nzim. Le ult'me parole a n' le potè s'ntir ne Panzòn, ne la Culunbina, p'rchè i er'n sv'nuti 'n mez a d'ara e sol vers sera i s'arpion, ma i n'er'n p'u da v'der, i er'n 'nv'ciati almen d' zent ani. Anch' Batì i er 'rriconoscibile, ma Lu i er zòv'n e i dovev fars forza. Dop a qualchi mesi da c'l brut di, i s' trovav'n tuti e tré a far i lavori 'n t'i canpi, quand a un zert moment 'l rumor d'un arop'lan i li fé scalar come una mola. 'l so p'ns'er i 'ndè sub't al so Pie e con i lacr'mòn a i oci i s' fest'n 'l nome del padre e quand l'arop'lan i er sparii 'n zel i s'armis'n a lavorar senza dir una parola; Forse p'nsand che 'n zim a c'd'arop'lan a i potev es'ri 'l so Pie. di Giovanni Alibani
Venerdì 03 Giugno 2011 | 5685 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Video/Video
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Domenica 23 Giugno 2013 | 2565 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Video/Video
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Venerdì 23 Novembre 2012 | 2742 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Storia/Storia di Avenza
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Venerdì 03 Giugno 2011 | 7724 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Cultura/Ricette
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Preparare la pasta frolla: impastare la farina con il burro ammorbidito e tagliato a tocchetti,lo zucchero, il sale, il bicarbonato, la marsala e i tuorli lasciare riposare mezz'ora in frigorifero. Setacciare le ricotta in una terrina unire lo zucchero i tuorli montando bene tutto. Per ultimo aggiungere 2 chiare montate a neve ben soda. Stendere la basta frolla in una teglia sganciabile lasciando il bordo un po' alto (conservando un po' di impasto se si vuole decorare, ricordarsi che il ripieno si gonfia durante la cottura), fare uno strato con gli amaretti sbriciolati per ultimo aggiungere il ripieno. Decorare a strisciette di frolla (facoltativo). Infornare a forno caldo (180 gradi) per 30/40 minuti (dipende dal forno). Sfornare e mettere sulla gratella.
Venerdì 03 Giugno 2011 | 3159 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Cultura/Ricette
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BASE PER CROSTATA (Pasta frolla) Kg 1,5 di farina Kg 1 di burro Kg 500 di zucchero gr 5 sale 12 tuorli 1 busta di vaniglia scorza di arancia e limone. Nicochef
Venerdì 03 Giugno 2011 | 2995 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Cultura/Ricette
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"Prendere un salmone di 1 kg (fresco)e sfilettarlo. Far bollire 3 litri di acqua con 500 gr di zucchero e 600 gr di sale grosso, scorza di arancia, limone, chiodi di garofano, pepe in grani; lasciare raffreddare e mettervi a bagno il salmone. Tenere in frigo per 3 giorni. Scolare il salmone e tagliarlo a fette fini e oblique, adagiarlo su di un letto di rucola e finocchio; condire con salsa citronette (succo di limone e olio senza sale ) e melograno. Nicochef"
Venerdì 03 Giugno 2011 | 3154 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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Cultura/Ricette
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Kg 1 di Farina gr. 200 di zucchero gr. 200 di burro gr. 70 di lievito di birra gr. 10 di sale 6 uova gr. 50 di latte vaniglia, scorsa di arancia e limone Fare sciogliere il lievito nel latte con il sale. Fare una fontana con tutti gli ingredienti rimasti e impastare il tutto con il lievito sciolto. Lasciare lievitare la pasta per 1 ora circa, poi rimpastarla e tirarla con il mattarello all'altezza di 1 cm. Con gli appositi stampini dare la forma di bombolone (in mancanza della forma usare un bicchiere) e fare anche il buchetto interno. Farli lievitare per circa 40 minuti in una teglia leggermente infarinata e poi friggerli in olio di semi da ambo i lati. Passarli allo zucchero semolato e servirli belli caldi. Nicochef"
Venerdì 03 Giugno 2011 | 2999 hits | Stampa | PDF | E-mail | Dati non corretti? Inviaci la tua segnalazione
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