IL COMMIATO L'Alpe di Mommio un pallido velame d'ulivi effonde al cielo di giacinto, come un colle dell'isola di Same o di Zacinto. Il Monte Magno di più cupo argento fascia la sua piramide; il Matanna è porpora e viola come il lento fior della canna. O canneti lungh'essi i fiumicelli di Camaiore, appreso ho il vostro carme. Vedess'io rosseggiare gli albatrelli sul Monte Darme! Dal Capo Corvo ricco di viburni i pini vedess'io della Palmaria che col lutto dè marmi suoi notturni sta solitaria! Potess'io sostenerti nella mano, terra di Luni, come un vaso etrusco! In te amo il divin marmo apuano, l'umile rusco; amo la tua materia prometèa, la sabbia delle tue selve aromali, l'aquila dei tuoi picchi, la ninfea dè tuoi canali. Potesse l'arte mia, da Val di Serchio a Val di Magra e per le Pà nie al Vara e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio con l'alpe a gara! Troppo è grave al mio cor la dipartenza. Come dal corpo, l'anima si esilia dal marmo che biancheggia tra l'Avenza e la Versilia. Tempo è di morte. In qualche acqua torpente or perisce la dolce carne erbale. Strider non s'ode falce ma si sente odor letale. DÃruta la Cerà giola rosseggia, là dove Serravezza è cò due fiumi, quasi che fero sangue in ogni scheggia grondi e s'aggrumi. Sta nella cruda nudità rupestre il Gà bberi irto qual ferrato casco. Ecco, e su i carri per le vie maestre passa il falasco. Metuto fu dalla più grande falce nella palude all'ombra del Quiesa, ove raggiato di vermène il salce par chioma accesa tra cannelle di stridulo oro secco, tra pigro sparto di pallor bronzino. Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il becco tuffa il piombino. Deh foss'io sopra un burchio per la cuora navigando, e di tifa e di sparganio carico ei fosse, e fossèvi alla prora fitto un bucranio o un nibbio con aperte ali, e vi fosse odore di garofalo nel mucchio per qualche cunzia dalle barbe rosse onde il suo succhio sì caro all'arte dell'aromatario stillasse fra l'erbame, e resupino vi giacessi io mirando il solitario ciel iacintino; e scendessi così, tra l'acqua e il cielo con l'alzaia la Fossa Burlamacca albicando qual prato d'asfodèlo la morta lacca; e traesse il bardotto la sua fune senza canto per l'argine; ed io, corco sul mucchio, mi credessi andare immune di morte all'Orco! Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare; e di sogni obliosi in van mi pasco. Si i gravi carri lungo le vie chiare passa il falasco. Sono sì vasti i cumuli spioventi che il timone soperchiano dinnanzi e il giogo cèlano e le corna e i lenti corpi dei manzi, onde sembran di lungi per sé mossi e tra la polve aspetto hanno di strani animali dai gran lanosi dossi, dai ventri immani. In fila vanno verso Pietrasanta, strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso. L'un carrettiere vócia e l'altro canta a passo a passo. E tutta la Versilia, ecco, s'indora d'una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella, ahimè, come in quest'ora ultima, o Pania! O Tirreno, Mare Infero, s'accende sul tuo specchio l'insonne occhio del Faro; ti veglia e guarda con le sue tremende navi d'acciaro la Città Forte dietro il Caprione sacro agli Itali come ai Greci il Sunio; t'è scheggia della spada d'Orione il novilunio; come sia fatta l'ombra, alla tua pace verseranno lor lacrime le Atlà ntidi, ti condurrà l'ignavo Artofilace l'Orse erimà ntidi; s'udrà pè curvi lidi il tuo respiro solo nell'ombra senza mutamento; solo rispecchierai l'immenso giro del firmamento. O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano con nel mio cuor la torbida mia cura! Splende la cima del mio cuore umano nell'ode pura. Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio, risali il Serchio, ascendi la collina ove l'ultimo figlio di Vergilio, prole divina, quei che intende i linguaggi degli alati, strida di falchi, pianti di colombe, ch'eguale offre il cor candido ai rinati fiori e alle tombe, quei che fiso guatare osò nel cèsio occhio e nel nero l'aquila di Pella e udì nova cantar sul vento etèsio Saffo la bella, il figlio di Vergilio ad un cipresso tacito siede, e non t'aspetta. Vola! Te non reca la femmina d'Eresso, ma va pur sola; ché ben t'accoglierà nella man larga ei che forse era intento al suono alterno dei licci o all'ape o all'alta ora di Barga o al verso eterno. Forse il libro del suo divin parente sarà con lui, sù suoi ginocchi (ei coglie ora il trifoglio aruspice virente di quattro foglie e ne fa segno del volume intonso, dove TÃtiro canta? o dove Enea pè meati del monte ode il responso della Cumea?). Forse la suora dalle chiome lisce, se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardi e chiuda nel forziere il lin che aulisce di spicanardi, sarà con lui, trista perché concilio vide folto di rondini su gronda. E tu gli parla: "Figlio di Vergilio, ecco la fronda. Ospite immacolato, a te mi manda il fratel tuo diletto che si parte. Pel tuo nobile capo una ghirlanda curvò con arte. E chi coronerà oggi l'aedo se non l'aedo re di solitudini? Il crasso Scita ed il fucato Medo la Gloria ha drudi; e, se barbarie genera nel vento nuovi mostri, non più contra l'orrore discende Febo Apollo arco-d'-argento castigatore. Ma tu custode sei delle più pure forme, Ospite. Col polso che non langue il prisco vige nelle tue figure gentile sangue. Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia, come l'ulivo placido produce agli uomini la sua bacca palladia ch'è cibo e luce. Per ciò dal fratel tuo questa fraterna ghirlanda ch'io ti reco messaggera prendi: non pesa: ell'è di fronda eterna ma sì leggera. Fatta è d'un ramo tenue che crebbe tra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor dè cuori selvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbe i suoi furori. L'artefice nel flettere lo stelo vedea sul Sagro le ferite antiche splendere e su l'Altissimo l'anelo peplo di Nike. Altro è il Monte invisibile ch'ei sale e che tu sali per l'opposta balza. Soli e discosti, entrambi una immortale ansia v'incalza. Or dove i cuori prodi hanno promesso di rincontrarsi un dì, se non in cima? Quel dì voi canterete un inno istesso di su la cima". Ode, così gli parla. Ed alla suora, che vedrai di dolcezza lacrimare, dà l'ultimo ch'io colsi in su l'aurora giglio del mare. (Data di composizione sconosciuta) di GABRIELE D'ANNUNZIO
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